Permane un'aura, intorno all'olio, che costituisce un tratto comune che po­tremmo benissimo defini­re una cultura e finanche una civiltà, quella medi­terranea. E dal sacro conviene dun­que partire, ricordando che l'ulivo non è solo il simbolo di vita e speranza, l'i­nizio di una nuova storia per il genere umano, con il ramoscello portato nel becco dalla colomba a Noè. Prima ancora Adamo, sentendosi ormai vici­no alla morte, a 930 anni, domanda a Dio l'olio della misericordia, che era stato a lui promesso mentre veniva al­lontanato dal Paradiso terrestre. Qua­si un tratto d'unione tra terra e cielo, un simbolo di alleanza tra il Signore e la sua creatura prediletta. Sarà un an­gelo a consegnare a Seth i semi del­l'albero del bene e del male. Questi, piantati sulla sua tomba sul monte Ta-bor, produrranno tre alberi: cipresso, cedro e, appunto, ulivo. E se dalla sa­cre scritture passiamo alla mitologia greca, è l'ulivo il dono di Athena agli ateniesi che convince Zeus ad asse­gnarle il possesso della città, nella sfida con Poseidone. Questi regala un cavallo, per la guerra. Ma Zeus prefe­risce l'ulivo, che serve in tempo di pa­ce. Sarà poi un semidio, figlio di Zeus e Cirene, Aristeo, pastore nomade, a insegnare agli uomini a spremere dal­le olive l'olio, diffondendo la sua lezio­ne in tutto il Mediterraneo, sino alle terre dei Fenici, che di questo tesoro  faranno uno dei commerci più diffusi e lucrosi dell'antichità. Sacri saranno molti ulivi. Quelli di Demetra, che si vedono nella spianata di Eleusi, e il cui utilizzo si intreccia con la ritualità complessa dei grandi misteri. Sacra la pianta sotto cui Latona dà alla luce Apollo e Diana, sacri anche gli ulivi di Olimpia, con i vincitori delle Olimpiadi coronati dai serti. Ma quel che più conta, questo aspetto sacrale non im­pedisce all'olio di essere uno dei car­dini della civiltà greca, che accompa­gna l'uomo lungo tutta la sua giorna­ta. Ogni uomo lo usa per ungersi, in palestra e al bagno pubblico. È l'ele­mento indispensabile per scaldare i muscoli e prevenire gli infortuni. Dopo la lotta i contendenti grattano via con lo striglie sabbia, olio e sudore. Al bagno invece ognuno porta la sua ampolla. Le notti greche sono illuminate dall'o­lio che brucia nelle lampade. Prima parcamente, dacché la vita si svolge dall'alba al tramonto. Poi, in epoca ales­sandrina, con gran sfavillio di lumi.

Olio e cibo
E infine, la dieta: nelle strade di Atene si vendono frittelle di miele, olio e farina di sesamo. Nelle case il pesce viene lessato e condito con una salsa composta con rosso d'uo­vo, porri, formaggio, aglio e olio. Ma c'è anche la salsa bianca, fatta di aceto, porri, sale e olio. E in tempo di guer­ra i soldati impastano palline crude di farina e olio e le mangiano lungo la marcia e prima della battaglia. Ma saranno i romani a organizzare su vasta scala il com­mercio dell'olio, tramite le cosiddette navi olearie, che sol­cano da sponda a sponda il Mediterraneo. Sarà Plutarco a scrivere che Cesare con il suo trionfo in Africa si è assicu­rato tre milioni di litri d'olio l'anno. E Columella a definire l'o­livo la prima di tutte le piante. A Roma viene anche istituita l'arca olearia. Una vera e propria borsa dell'olio cioè, luogo di incontro di acquirenti e commercianti. E tutti i grandi scrittori, dal lucano Orazio al mantovano Virgilio, sino a Ca­tone e Varrone, discutono lungamente nelle loro opere di olivicoltura, certo non con la competenza scientifica di un Columella, spesso però azzardando ipotesi divergenti dal­lo stato dell'arte dell'agricoltura, in ciò mostrando ciascuno la propria originalità, basata su esperienze dirette. Sono cinque le tipologie di olio nell'antica Roma. Quello da olive chiare, quello da olive che vanno annerendo il loro verde, quello da olive mature, quello di olive già cadute a terra e infine quello ottenuto da olive bacate, che si dà agli schia­vi. Il suo uso e vastissimo sia in cucina sia in medicina. Per salse, per il pesto, già conosciuto, come antipasto, e per tantissime preparazioni indicate puntualmente da Ippocrate e Plinio il Vecchio. Con l'eclissarsi dell'impero e le inva­sioni barbariche, al declino di Roma corrisponde quello dell'olivicoltura. Che scompare letteralmente in Italia, per salvarsi invece in alcune province. A mandarne in crisi l'uti­lizzo, in un tempo di scarsissimi mezzi, sono i costi dell'impianto e la lunghezza del periodo necessaria per ottenere una ren­dita soddisfacente. La pianta è troppo fragile: attaccata dagli in­festanti, messa in pericolo dalle gelate. Solo i monasteri più po­tenti potranno perpetrarne la col­tura. Si dice per esempio che a introdurre l'ulivo in Liguria siano proprio i Benedettini. Sarà poi, dopo l'anno Mille, l'evoluzione dei contratti agrari, con l'introduzione della proprietà contadina, a ripor­tare in voga l'ulivo. Ora il contadi­no ha tempo e mezzi per investi­re. Nell'Italia dei comuni si riduco­no le importazioni di olio. Anzi, si torna a esportare. Nel XII secolo un veneziano, Voltani, primeggia sul mercato oleario di Bisanzio, ma anche a Corinto e a Tebe, spin­gendosi sino in Romania. E Venezia istituisce una sorta di monopolio del­l’olio su tutto il Mediterraneo orientale, mentre Genova commercia con Spa­gna, Africa e Provenza. È l'olio co­munque alimento e condimento riser­vato ai ricchi e a chi non compie lavo­ro manuale. Gli umili e chi coltiva la terra usano strutto, sugna e lardo. È una vera e propria dialettica alto-bas­so quella che riguarda olio e maiale. L'uso rurale e tra i poveri dell'olio è li­mitato alla sola Puglia, isola felice.

L'olivo in Europa
E quando le guerre sconvolgono l'europa nel Cinquecento, seguite dalle pestilenze del Seicento, la coltura del­l'olivo torna a eclissarsi. Si salvano To­scana e Sardegna. Il Granduca Cosi­mo I è uno studioso di agronomia e distribuisce le terre ai capi famiglia dei villaggi contadini. Nell'isola invece è un vicere spagnolo, Giovanni Vivas, a chiamare cinquanta maestri inne-statori da Maiorca, e per ciascuno no­mina dieci allievi. Così l'ulivo torna a popolare la parte nord-occidentale
dell'isola. Nel Settecento, la domanda a livello europeo esplode letteralmen­te. L'olio del nostro Sud viaggia sino al Belgio, alla Francia, all'Inghilterra. E alla Russia di Caterina, cui lo studioso pugliese Giovanni Presta invia un co­fanetto in legno di ulivo che contiene tutte le più pregiate varietà d'olio ita­liano. Una terrificante nevicata, nel 1709, mina invece le basi dell'olivicol­tura toscana. L'alternanza di scirocco e tramontana finisce per seccare gli alberi, schiantare i rami e sradicare le piante. Sarà l'accademia dei Georgo-fili nel 1753 a rivalorizzare l'olio tosca­no, bandendo un concorso sull'albero più utile allo stato, intitolandolo "deco­ro, ricchezza e amenità della collina". Ma è uno spettatore illustre d'Oltralpe a individuare correttamente la nuova terra promessa dell'olio: Montesquieu. Che da Genova nel 1782 scrive: "dacché i genovesi hanno perduto un po' dei loro capitali a Vienna, Venezia, in Spagna e Francia, hanno preso a spendere i loro denari nel disboscare le montagne per piantarvi gli olivi e da vent'anni a questa parte tali colture sono molto aumentate". Un'osservazione verosimile, se si pensa che nel 1775 l'olio rappresenta a Oneglia il 71% della produzione agricola complessiva.

Una produzione su larga scala
Ad avviare però per primi una produzione proto-industriale so­no i Picholini, due fratelli che in Provenza s'inventano anche una ricetta per togliere alle olive l'a­maro, tramite un preparato di tralci d'olivo, acqua di calce e cenere di quercia verde. Persino lo stato pontificio inco­raggia lo olivicoltura. Nel 1830 Pio Vili promette un paolo, equi­valente al guadagno di una gior­nata di lavoro, a chi pianta e alle­va sino a 18 mesi un albero di uli­vo. In pochi anni l'Umbria, allora bo­scosa e sovente incolta, diventa una delle terre d'elezione per la produzio­ne di olio. Certo, non nella maniera in­tensiva che caratterizza la Liguria. È Porto Maurizio, dunque Imperia, la capitale dell'olio. Lì gli uliveti coprono il 40% dell'impervio territorio. E se la produzione attraversa ancora mo­menti di crisi, allorché non è suppor­tata adeguatamente dalla forza com­merciale, in coincidenza cioè della progressiva perdita d'importanza del­le nostre esportazioni, soprattutto di quella ligure, dopo la frattura con l'im­pero francese, ormai ben 67 province italiane su 97 alla fine del XIX secolo praticano la coltivazione dell'ulivo. A cui lo stesso Giovanni Pascoli dedica un inno, pubblicato nel 1901 su Rivie­ra Ligure, e illustrato da Plinio Nomelli-ni. Ne è passato dunque anche d'olio sotto i ponti, dagli insegnamenti di Aristeo ai Fenici. Ma l'olivo resta an­cora il simbolo più efficace, ancor più del mare e del vino, della civiltà Medi­terranea.

Tratto da: Imbottigliamento (Aprile 2005)

 
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